martedì 23 settembre 2014

Ancora eccellenze italiane

Prima di rientrare in Italia ho voluto, su suggerimento della mia amica Giovi del fashion blog theglampepper, visitare un’altra esposizione, presente in questo periodo nella capitale inglese, dedicata ad una delle eccellenze italiane.
Non sono propriamente una che segue il settore ma questo tributo a 50 anni di moda italiana dal dopoguerra a oggi mi incuriosiva ed si è rivelato un bel percorso nella storia recente del nostro paese anche se da un punto di vista molto glamour. Si parte dalle prime elegantissime sfilate di Palazzo Pitti al boom economico degli anni 60, dal pret-a-porter all’avvento dei grandi nomi della moda che iniziano negli anni 70, passando per Cinecittà e per le grandi star holliwoodiane che sono state ambasciatrici della creatività e dell’italian style, della eccezionale qualità di tecniche e materiali che hanno fatto diventare il Bel Paese la casa dei più grandi marchi dell’alta moda in tutto il mondo.

Non è stata infatti solo l’esposizione di magnifici abiti e accessori impreziositi da finiture uniche e originalissime (diciamo un po’ impegnative da portare!) ma anche la storia della nascita di un’industria tessile italiana che fino a pochi anni fa era un settore fortissimo e vantava capacità e maestrie invidiate da tutti. Distretti della moda che si sono specializzati nei diversi tessuti e materiali in varie zone d’Italia, Prato e la Toscana, Biella, Como e da qui hanno portato il made in Italy in giro per il mondo. Peccato che come al solito queste belle mostre celebrino la bravura italiana sempre con uno sguardo al passato intriso di nostalgia per un’epoca ormai finita.
Infatti è vero che il mondo è cambiato completamente negli ultimi decenni.





La qualità e la perfezione tecnica sono una ricerca riservata ormai al settore del lusso e basta fare un giro per i grandi tempi dello shopping del centro della città per vedere come la maggior parte della clientela internazionale, soprattutto giovane, cerchi cose originali e easy a prezzi molto bassi (un tripudio di tessuti acrilici e sinteticissimi da far rizzare i peli) confezionati soprattutto nei paesi dell’est asiatico e commercializzati da grandi aziende, i nuovi marchi dell’abbigliamento mondiale, che non hanno più niente a che fare con l’Italia. Non si cerca più il capo che duri nel tempo ma qualcosa che si può buttare a fine stagione senza troppi sensi di colpa per sostituirlo con qualcosa più cool e di moda a quella successiva. Il fashion come paradigma e simbolo della veloce trasformazione della nostra società “liquida” per dirla alla Zygmunt Bauman.

E quindi non è facile capire come fare per stare a galla. Giusto per ribadire il concetto la mostra terminata il mese scorso ha avuto come main sponsor Bulgari, prestigioso marchio italiano ora in mano al gruppo francese LVMH.
“The Glamour of Italian Fashion 1945 - 2014” terminava con una serie di interviste a varie personalità importanti del settore; le parole che si sentono ripetere sono “amore per il lavoro ben fatto, perfezionismo, creatività, capacità artigianale, dedizione, passione, qualità, stile”. Questi termini sono il cuore del made in Italy; ho l’impressione che dovremmo dargli una bella ripassata anche noi che indubbiamente non stiamo attraversando un bel momento.

Due parole sullo splendido museo che ha ospitato la mostra: 

è il Victoria and Albert Museum, V&A per gli amici.

E’ il museo londinese dedicato alle arti decorative, alla bellezza a scopo ornamentale declinata in tutte le forme e tutti i materiali. E’ nato per ospitare i manufatti della prima grande Esposizione Universale di Londra del 1851 (quella del Crystal Palace) e ora conta collezioni permanenti per oltre 4 milioni e mezzo di oggetti provenienti da tutti i continenti che coprono più di 5000 anni di storia . Impossibile visitarlo tutto!


Qualche foto per portarvi nella sua atmosfera.

L’enorme lampadario scultura dell’artista statunitense Dale Chihuly in vetro di Murano all’ingresso.



















Le “Tre Grazie” del nostro Antonio Canova acquistate nel 1994 per la cifra di 7.500.000 sterline. Lo stile neoclassico è molto nelle corde degli inglesi che hanno invece sempre snobbato il barocco; lo stesso museo infatti nel 1950 ha acquisito per circa 45.000 sterline la meravigliosa statua di “Nettuno e Tritone” di Gianlorenzo Bernini. E’ vero che ci sono 50 anni in mezzo ma che gran differenza di valutazione!


I giardini John Madejski.













Le Morris, Gamble and Poynter Rooms che ospitano il V&A Cafè. Come in molti altri musei e luoghi di cultura, splendide sale ospitano profanissimi luoghi dove si mangia e si beve (da noi sarebbe un’eresia che farebbe strocere il naso a sopraintendenti e esperti vari). Per non parlare della bellezza dei book shop che da soli meritano un giretto (sempre loro, i dirigenti del settore culturale italiano direbbero: “ma che scempio tutto questo commercio”).
Scuole di marketing diverse evidentemente.

La scomparsa della tovaglia

Tom ed io siamo tornati in patria terminando la nostra esperienza di expat ma avendo ancora qualcosa di semiserio da raccontarvi credo che scriverò qualche altro post sul blog londinese.
Tornando a casa dopo un periodo in cui ci si è adattati ad abitudini nuove e a luoghi e persone diverse si apprezzano cose che magari prima non avevamo neppure notato. 
Uno dei piccoli piaceri che ho ritrovato è stato sedermi e mangiare attorno ad una tavola ben apparecchiata.


Quando abbiamo iniziato a vivere a Barking con la famiglia che ci ha affittato la camera mi ero subito sorpresa del fatto che non ci fosse un tavolo, nonostante il salotto-living room e la cucina fossero più ampi della media delle casette striminzite di qui, ma disponessero solo di un bancone. Infatti non è loro abitudine mangiare appoggiandosi ad una superficie ma, dalla colazione alla cena, il pasto viene consumato seduti sul divano davanti alla telly e, come credo la maggior parte delle persone provenienti dalla zona dell’India e dintorni, non si usano le posate ma si mangia rigorosamente con la mano destra intingendo del riso bollito o del roti/chapati (pane piatto tipo piadina) nella pietanza principale che solitamente è carne o pesce cucinati con delle salse più o meno speziate.
Dopo l’iniziale perplessità è diventata una cosa normale ma noi non abbiamo mai rinunciato al pasto seduti sugli unici due sgabelli della casa appoggiando le nostre cose sul bancone; certo il desco era un po’ tristolino vista la dotazione ridotta all’essenziale ma se lo chiamavamo “minimalista” già faceva una figura diversa.
Con il passare del tempo abbiamo notato invece che l’abitudine di non preparare la tavola ma sostanzialmente mangiare (spesso “buonissime” schifezze prese ad un take away) davanti alla TV seduti sul sofa o sulle poltrone non era solo della nostra casa ma è diffusissima in tutte le famiglie qui in Inghilterra di qualsiasi etnia, grandezza o estrazione sociale. In effetti anche il rapporto con il cibo è un fatto culturale e come per tante altre cose è curioso vedere quanti modi diversi ci sono non solo di prepararlo ma anche di consumarlo.
Ditemi però che anche voi siete per la difesa della tovaglia e di un bel tavolo “all’italiana”.